Correva l'anno 1938 quando io, Clara Servi, avevo quindici anni ed ottenni il diploma di medie inferiori dell'Istituto Commerciale di Gallarate, che mi avrebbe potuto aprire le porte ad una carriera al Monte dei Paschi di Siena, mio padre infatti era direttore della agenzia di Pitigliano, paese in cui ero nata.
Ero carica di speranze e avevo un forte desiderio di affrontare una nuova realta' nel campo lavorativo.
Avevo ripreso anche lo studio del pianoforte con la maestra Brumori di Pitigliano, e tanti erano i miei sogni.
Nell'estate andai in villeggiatura a Igea Marina con Apulia, mia cugina, a casa della quale avevo trascorso I tre anni delle medie. Ricordo con piacere quegli anni felici in casa degli zii dove, assieme ai cugini, trascorsi un periodo di formazione culturale che mi e' stata di base per gli anni futuri.
E' stato proprio a Igea Marina ( Rimini) sulla spiaggia, che Apulia, piu' adulta di me di quindici anni ricevette da Efsiba Paggi maestra di Pitigliano, una lettera la quale ci faceva presente che si stavano preparando tristi eventi per noi ebrei. Si cominciavano a profilare le leggi razziali.
All'inizio non prendemmo la cosa molto seriamente, ci sentivamo Italiani e bene inseriti nel tessuto sociale della nazione. Mio padre e mia madre erano impiegati del governo, essendo mia madre, Elda Servi, maestra e mio padre, Angelo Servi funzionario di banca.
Ma il fatto di sentirci veri italiani non ci evito' di essere descriminati.
Infatti tornata dal mare le leggi razziali furono messe in atto; in un giorno mio padre, mia madre e mia sorella furiono estromessi dal posto di lavoro e di studio ed anche io, che ero entrata in banca da tre settimane dovetti lasciare il lavoro. Eravamo costernati e increduli ed in attesa di capire come si sarebbero svolti gli eventi successivi.
Per me ancora adolescente niente mi era chiaro e forse non capii neppure perche' mia madre mando' me e mia sorella a Roma ad aiutare delle vecchie zie a noi sconosciute che erano rimaste senza domestiche perche' agli ebrei era proibito tenere in casa donne di servizio ariane.
Restai lontano da casa per quattro mesi e cominciai a rifugiarmi nei ricordi dei tempi passati, ripensando all'infanzia serena a Pitigliano e agli anni di studio a Gallarate. Dagli zii avevo avuto modo di conoscere gente interessante e di trascorrere serene vacanze sulle Dolomiti.
Furono invece mesi grigi quelli in casa degli zii vecchi i quali parlavano solo delle previsioni metereologiche, del cimitero e dei tempi difficili.
Io mi trovavo in una grande citta' dove dovevo maturarmi in fretta e imparare a vivere con gli altri, in tempi duri e imprevedibili.
Tornai a Pitigliano dove seppi cosa era capitato a mio padre: l'atmosfera in casa era cambiata. Mio padre, che era reduce della prima Guerra mondiale e mutilato di Guerra per cui aveva ricevuto diverse medaglie al valore,un giorno si era permesso di esprimere in confidenza un giudizio negativo su Mussolini, mentre si trovava dal barbiere dove era solito andare. Era a Pitigliano dove pensava di essersi conquistata la fiducia dei compaesani e la frase incriminabile era uscita dalla sua bocca dopo aver dato un'occhiata al giornale in cui c'erano ancora articoli riguardanti gli ebrei.
Il barbiere si affretto' a riportare quanto era stato detto da mio padre alle alte sfere per cui fu convocato a Roma per giurare che le sue parole erano state travisate. Tutto cio' feri' profondamente l'animo di mio padre e dovettero passare tanti anni prima che riuscisse a riconciliarsi con i cittadini di Pitigliano.
In questo paese sperduto nella Maremma Toscana, arroccato su un'altura di tufo e lontano dalla ferrovia sessanta chilometri mio padre aveva fatto molto perche' tra la comunita' ebraica ed il popolo contadino si instaurasse un rapporto di amicizia e di fraternita', cosi', almeno credeva fino al giorno in cui dal barbiere aveva parlato troppo.
Un giorno sentii che mia madre voleva vendere il pianoforte e aveva avuto una offerta di 700 lire, poi un tale di Roma le aveva offerto 20 mila lire e cosi' lo vendetta in fretta per l'enorme differenza: fu l'inizio del disfacimento della casa di Pitigliano, che si trovava nel centro del paese sopra la Banca del monte dei Paschi di Siena.
Ai miei genitori faceva piacere ricevere gente: la mamma riuniva le college e il papa' riceveva conoscenti nella casa grande,spaziosa e arredata con gusto e signorilita'.
La casa era seguita da due donne ,la sarta veniva ogni settimana ed anche la parucchiera veniva a farci belle in casa ogni tanto.
La nostra posizione sociale era decisamente buona e quando nacque mio fratello Aldo l'evento fu scritto sul giornale del luogo e la banda del paese suono' in piazza.
Con tutti gli altri parenti ci riunivamo per festeggiare le ricorrenze ebraiche e tutti i cugini erano per noi come fratelli e con loro da piccoli giocavamo e da grandi facevamo incontri e gite.
All'inizio del 1939 c'era da prendere la decisione se lasciare Pitigliano per Roma o Firenze. I genitori decisero per Firenze in quanto mio padre ( Angelo) aveva studiato con il Rabbino Margulies in questa citta' e aveva lavorato con Mario Passigli. Pensavano pertanto che sarebbe stato piu' facile trovare un lavoro ed introdursi nell'ambiente ebraico della citta'.
Le cose non furono semplici come i miei credevano dato i tempi precari in cui ci si dibatteva e le difficolta' non risparmiavano proprio nessuno.
Mio padre fu disoccupato per sedici mesi, e le nostre reserve diminuivano sempre piu', ma apparentemente la famiglia cerco' di mantenere la serenita' e il buon umore perche' la mamma ( Elda), voleva che noi figli frequentassimo con spensieratezza giovani dell'ambiente ebraico.
Fu un periodo piu' o meno buono, nella bella citta' di Firenze, infatti avevamo formato un'allegra compagnia andando spesso alle feste, al cinema, al piazzale Michelangelo e in giro per la citta'. Nel frattempo a mia madre venne un'idea di facile realizzazione; all'interno di un garage sotto casa sistemo' tre macchine da cucire e con l'aiuto mio, di mia sorella e di una donna non ebrea, che cosideravamo di famiglia, la mamma inizio' una attivita'che dette i suoi frutti.
Secondo delle leggi razziali agli ebrei era proibito vendere tessuti a metraggio, ma non era proibito vender roba gia' cucita, per cui confezionavamo camicie da notte per gli ospedali, mutande da uomo e grembiuli per i bambini di asilo.
Questa produzione casalinga termino' quando mio padre trovo' lavoro alla ditta Imea che era gestita da altri ebrei.
In questa ditta fece amicizia con un correligionario di nome Lusena col quale in seguito fondo' la societa' “Temi " tessuti e mercerie all'ingrosso".
Il 23 novembre del 1943, giorno del compleanno di mia sorella minore Elsa, i miei genitori predisposero e organizzarono l'incontro con colui che sarebbe diventato mio marito,Renato Calo' figlio di Emma Decori e di Guido Calo'
I miei genitori, con i quali non avevo un rapporto aperto e confidenziale, pensarono soltanto che un giovane di quattordici anni piu' grande di me, io avevo solo vent'anni, mi sarebbe stato di sostegno e di protezione in un periodo di guerra e di notevoli incognite.
Renato mi aveva visto una volta alla ditta Temi mentre svolgevo mansioni di segreteria. Dopo quattro mesi di una conoscenza alquanto superficiale mi sposai. era il 4 aprile 1943.
Il matrimonio fu celebrato in "pompa magna", nella sinagoga di Firenze, dopo la consueta festa per dare l'addio al celibato.
Il rabbino che celebro' il matrimonio fu Nathan Cassuto che, passati tre mesi da quella data fu deportato assieme ad altri di ebrei di Firenze dopo una retata compiuta dai nazisti. Per me fu un enorme dispiacere quando lo seppi.
Ripensandoci adesso mi rendo conto che la guerra non era sentita dalla nostra famiglia come un'incombente tragedia,
vivevamo giorno per giorno nel nostro mondo.
Andammo in viaggio di nozze con un biglietto del treno che prevedeva varie tappe,Bologna,Venezia, Verona, Merano e da li' raggiungemmo Gallarate, tornammo a Firenze rinunciando a Roma sia perche' mio suocero aveva bisogno del figlio per lavoro ,sia perche'si avvicinava la festa di Pesah.
Il viaggio di nozze duro' quindici giorni e ricordo l'oscuramento oltre al ricordo di essere andata in gondola con una pila tascabile.
Tornati a Firenze andai a vivere in casa dei miei suoceri per circa due mesi finche' nel periodo dell'estate, come si usava, andammo in villeggiatura a Castiglion dei Pepoli dove affittammo una casa da una donna fascista che con noi ebbe rapporto corretto o forse non seppe mai che eravamo ebrei. Fu un periodo tranquillo, ma io mi sentivo estranea alla famiglia dei miei suoceri e cio' che capitava fuori dalle mura domestiche non mi toccava, per cui la situazione politica non era per me fonte di ansia e solo la natura circostante mi dava serenita'. Il 28 settembre 1943 rientrammo a Firenze nella casa di via Firenzuola, quella dei suoceri, dove era rimasta a custodirla una donna fidata che per 16 anni si era occupata dei lavori domestici. Lei era al corrente della situazione politica, cosi che, ci consiglio' di non entrare in casa e di non disfare le valigie.
Aveva sentito dire che i tedeschi avevano preso le liste con gli indirizzi degli iscritti alla comunita' e quindi il pericolo era incombente. Ci dirigemmo subito a casa di un amico di Renato di nome Toccafondi che ci ospito' per la notte e la mattina dopo avremmo preso le decisioni del caso.
Mio suocero , proprietario dell'Abitificio Toscano, una piccola fabbrica di confezioni che noi chiamavamo il “magazzino” penso' che le lavoranti, che abitavano fuori citta', avrebbero potuto aiutarci. Fu cosi' che lui prese contatti con le famiglie e si accordo' per il pagamento.
Fu deciso che noi giovani saremmo andati per primi a Rignano sull'Arno e la' una certa Bruna ci avrebbe trovato un alloggio presso una donna del villaggio, e cosi' fu. Ogni giorno pero' andavamo a mangiare in una trattoria abbastanza vicina alla stazione ferroviaria dove si fermavano anche moltisimi tedeschi che scendevano dai treni.
I proprietari della trattoria che sapevano della nostra origine e provenienza ci facevano mangiare in un tavolino nell'angolo della sala, un posto riservato e defilato.
Passammo il Kippur di quell'anno nascosti in questo villaggio.
Un giorno subimmo un grosso bombardamento che colpi' la stazione e noi eravamo proprio nei paraggi: un contadino mi fece osservare, che il mio vestiario non era adatto al pericolo, infatti indossavo un cappotto bianco che poteva attirare l'attenzione dei piloti aerei nemici.
Ma noi, in quel momento pensavamo solo a come salvare la vita. Passammo da Rignano al Bombone dove ci raggiunsero I miei suoceri; dormivamo in un sottoscala dove i contadini riponevano gli utensili e per terra c'erano ghiande e olive.
Non c'era luce, mentre un po' d'aria filtrava da una vetrata alta. Su due reti metalliche dormivamo tutti e quattro, mentre topi e gatti scorrazzavano in quella che era la loro dimora. Sopra di noi abitavano i contadini che quando seppero che eravamo ebrei si rifiutarono di continuare ad ospitarci, cosi' finimmo con l'andare a Sant'Ellero, ultima nostra residenza italiana prima di andare a rifugiarci in Svizzera.
A Sant'Ellero alloggiammo assieme ai miei suoceri in una casa con due camere e l'uso di cucina. Imparammo a vivere come i contadini, andavamo a prender i prodotti dalla terra che cucinavamo certe volte assieme alla famiglia che ci ospitava.
Gigi, il padrone, era un maniscalco ed il suo lavoro, piu' la campagna gli davano un certo benessere. Un giorno fui svegliata da grida strane, un agnellino acquistato da mio suocero fu sgozzato dai padroni della casa e fu cucinato in diversi modi facendo cosi festa per una settimana con pasti appetitosi.
A Sant'Ellero inizio' la mia prima gravidanza, abitavamo in casa di Gigi e nel complesso ci trovammo a nostro agio nonostante i tempi difficili.
Un grosso bombardamento segno' pero' questo periodo. Era un giorno tranquillo, non come al solito, ma le sirene dell'allarme improvvisamente cominciarono a farsi sentire.
Ci rifugiammo nella stalla, ma passo' tanto tempo per cui pensammo ad un falso allarme.
Io e mio marito Renato ci incamminammo lungo un sentiero che doveva arrivare da un mugnaio che aveva una radio clandestina, volevamo avere le ultime notizie.
Ad un tratto sentii dei rumori, in cielo non si vedeva nulla e Renato non voleva credere che stessero sorvolandoci degli aerei, ma quando furono sopra di noi potei contarli, erano 48 fortezze volanti e lo spostamento d'aria ci butto' a terra.
Il ponte di Sant'Ellero venne distrutto. Certamente lo spavento che provai' non sara' stato salutare ne' per me ne' per il bambino che era dentro di me. Io ero incinta di cinque mesi !!
Ero diventata esperta di aerei da guerra: al mattino alle sette sovente vedevo in alto un piccolo aereo spia che poi ho saputo che si chiamava “Pippo”. Dopo la sua apparizione seguiva un bombardamento o un mitragliamento che avrebbe colpito la ferrovia altre volte invece seguivano aerei diretti sulle fabbriche di munizioni di Ponteassieve.
A Sant'Ellero come mi resi conto di essere in attesa cominciai a desiderare di aver vicino mia madre, in fondo avevo solamente vent'anni, ma non sapevo dove fosse e neppure se fosse viva, non esistevano mezzi per comunicare.
Grazie a Dio la gravidanza non mi procuro' disturbi particolari, anzi mi permetteva di andare dai contadini a chiedere qualche prodotto in piu' per poter soddisfare le mie voglie e talvolta quelle di mio marito che incinta non era, ma era sempre affamato.
Le giornate trascorrevano apparentemente serene ma dentro di noi c'era una costante apprensione per i bombardamenti che si verificavano all'improvviso e per questo dormivamo sempre vestiti e molto spesso con le scarpe ai piedi.
Una vecchia lavorante del magazzino di mio suocero ogni tanto da Firenze ci faceva visita e ci portava giornali e notizie sulla situazione politica e militare. In questo periodo eravamo agevolati dal fatto che ancora potevamo pagare chi ci dava ospitalita'.
Mia sorella Ilda, che nel settembre del 1943 aveva sposato uno studente mussulmano albanese di nome Neky Merobabani (chiamato in seguito solo Babani) si sentiva piu' sicura non essendo il marito di religione ebraica e pertanto era rimasta a Firenze.
Non so come, un giorno ci fu recapitata una lettera clandestina proveniente da mia madre Elda Servi che nel frattempo si era rifugiata in Svizzera. La mamma con questo scritto ci invitava a raggiungerla. Mio suocero Guido Calo', lesse la lettera ma si oppose ad un nostro eventuale distacco.
Mia sorella Ilda anch'essa incinta di tre mesi ci fece sapere da Firenze che sarebbe partita con il marito per la Svizzera ,e la cosa mi rattristo' enormemente dato che mio suocero non ci dava il permesso di espatriare.
La fortuna volle che il fratello di mio marito, Renzo Calo' a Firenze incontrasse per strada un certo Momo Guidantoni, amico di famiglia non ebreo che gli prospetto' la possibilita' di rifugiarsi in Svizzera assieme a sua moglie Elsa Samaja e la figlia Paola nata nel 1941. Quando mio suocero seppe che l'altro suo figlio avrebbe preso la strada della Svizzera si convinse che anche noi saremmo potuti partire data anche la mia avanzata gravidanza.
Nel frattempo venni a sapere che mia madre, mio padre e mio fratello di quindici anni erano arrivati in Svizzera dopo una sofferta decisione: quella di portare via il figlio maschio lasciando in Italia la figlia piu' giovane Elsa, dal momento che non sapevano come sarebbe stata la loro sistemazione al di la' del confine, pensavano fosse meglio portare in salvo il figlio maschio ebreo. Elsa fu lasciata da una amica di mia madre proprietaria di un grande albergo a Montecatini, forse la mamma pensava che presto sarebbero tornati in Italia e la famiglia si sarebbe ricomposta. Le cose invece andarono ben diversamente. Un giorno la signora Ghilardi, proprietaria dell'albergo, affido' Elsa ad un partigiano che andava a Milano. Non sappiamo come la famiglia Calfon si sia presa poi cura di lei con la promessa di condurla in Svizzera assieme a loro.
Sappiamo pero' che una volta arrivati al confine Svizzero I Calfon vennero rifiutati e sarebbero dovuti tornate indietro, cosa che era gia' successa ad altri che finirono per essere fucilati dai tedeschi.
Elsa si fece riconoscere come appartenente ( figlia) alla famiglia di Angelo Servi gia' internata dal 16 dicembre 1943 e la cosa venne presa in considerazione.
La polizia di confine fece le dovute ricerche e ottenne la conferma cosi' Angelo Servi,il padre, fu rintracciato e fatto arrivare al confine: riconobbe la figlia e la famiglia Calfon, e tutti ottennero il permesso di passare il confine.
Angelo rimborso' i Calfon per quanto avevano pagato per la figlia Elsa ai contrabbandieri. Elsa dovette affrontare la nuova vita in Svizzera da sola, il periodo di quarantena, i vari controlli e infine l'inserimento come domestica in una famiglia in cui si parlava tedesco.
Fu in Svizzera che mia sorella comincio' a minifestare segni di confusione mentale e disturbi psichici che non l'abbandonarono piu'. Fini' la sua vita in un ospediale psichiatrico a Firenze.
Riprendo il racconto della mia fuga in Svizzera.
Al sesto mese di gravidanza partii da Sant'Ellero e con mio marito arrivammo a Firenze direttamente nella zona del ponte di ferro sulla strada che porta al piazzale Michelangelo. Quando scendemmo dalla macchina sentimmo chiamare “Renato Calo'!”, erano persone che avevano riconosciuto mio marito. Il piacere di rivedere facce amiche si oscuro' subito al pensiero di poter essere denunciati per cui tirammo avanti senza fermarci. Giunti nella casa dove avevo abitato con i miei genitori, in via Pier Capponi, ci sistemammo in qualche modo nell'appartamento che aveva come custode Rosina moglie di Momo Guidantoni e nostra fidata donna conosciuta fin dalla mia infanzia. Il giorno seguente con il biglietto del treno preventivamente acquistato dal marito di Rosina, ci recammo alla stazione con mio cognato Renzo, sua moglie Elsa e la loro figlia Paola di tre anni. Li' apprendemmo che un grosso bombardamento aveva interrotto a Bologna la linea ferroviaria e per noi sarebbe stato impossibile raggiungere Milano. Tornammo a casa. Alla solita ora il giorno dopo fummo di nuovo in stazione ma anche questa volta non fu possibile partire perche' la locomotiva era stata requisita dai tedeschi. Ci dissero di pazientare per alcune ore, quindi mi fecero entrare in un carro bestiame affinche' riposassi.
Quando ritornai nel vagone del treno,dove si trovavano mio marito e i miei cognati mi fu chiesto un parere per una ultima decisione: restare in stazione o tornare a casa prima del coprifuoco? Se fossimo rimasti potevamo rischiare di restare sotto un bombardamento dato che il giorno prima era stata colpita la stazione di Firenze. Restammo! Alle due del mattino il treno si mise in movimento dopo dieci ore di attesa. Non ricordo di aver proferito parola, continuavo a guardarmi attorno con apprensione.
Arrivammo a Milano e ci recammo in Via Silvio Pellico ** dove si trovava lo studio del Dottor Banfi, commercialista amico della famiglia Servi di Gallarate,infatti i cugini Alberto e Seprio entrambi commercialisti avevano con lui rapporti di lavoro. In una grande stanza semioscura si aggiravano persone di vario tipo che parlavano in maniera sommessa ma concitata.
Gli addetti all'organizazione coordinavano l'espatrio, e questi ci fecero incontrare dei contrabbandieri che ci istruirono su come vestirsi e cosa portare ….. non tropppo peso.
Mio marito e mio cognato si accordarono con due sconosciuti ed io ricevetti una bicicletta con la quale percorsi da sola un tratto di strada per ritrovarmi poi assieme al resto della famiglia,immagino tutto questo sia stato organizzato per motivi di sicurezza. Con un mezzo di fortuna raggiungemmo una cascina fuori Milano dove ci rifocillammo e riposammo.
A mezzanotte iniziammo il percorso a piedi preceduti dalla nostra guida. Ogni tanto apparivano davanti a noi piccoli gruppi di gente che come noi volevano andare a cercare rifugio in Svizzera. Nel silenzio sentivamo il latrato dei cani, i rumori di spari di fucile e voci trasportate dal vento.
Dopo quattro ore di cammino tra i boschi, in mezzo alla umidita' della notte vedemmo la rete che segnava il confine cosi' tanto agognata . Paola la nipotina di tre anni a cui era stato dato un sedativo perche' dormisse si sveglio' e inizio' a piangere, furono momenti di vero panico. Le nostre guide ricevettero i soldi, 5000 (?) franchi a persona, subito si accovacciarono e al lume della luna si misero a contarli.
Si affrettarono poi ad andarsene dopo averci detto che a dieci passi dalla rete saremmo stati in salvo. Entrati in Svizzera dalle parti di Chiasso lungo la nostra strada una donna si affaccio' alla finestra della sua casa e ci chiese se eravamo Italiani e dopo la nostra risposta affermativa mando' suo marito incontro a noi. L'uomo ci accompagno' alla polizia,era il quattro maggio 1944. A noi donne dettero dei pagliericci per riposare mentre gli uomini furono sottoposti ad interrogatorio e solo piu' tardi fu il nostro turno e fummo interrogate separatamente.
Ci obbligarono a consegnare gli oggetti preziosi ed a questo punto tirammo fuori il certificato che ognuno di noi aveva cucito dentro la fodera del cappotto. In questo documento era scritto che eravamo di religione ebraica.
Il giorno seguente fui accompagnata al Majestic di Lugano.
** Dalle ricerche fatte (vedi sito) anche in Via Silvio Pellico c'era la sede delle SS di Milano